Dopo un silenzio durato sette anni, con Il mestiere delle armi Olmi torna sulle scene in grande stile, spiazzando con un salto all'indietro
nella storia medievale che, a prima vista, non pareva nelle sue corde. Vince appieno la scommessa e mantiene fede alla complessità morale
che il suo cinema ha sempre cercato di sondare. 1952: Giovanni dalle Bande Nere difende il papa dai lanzichenecchi di Carlo V e dalle trame
delle corti di Ferrara e Mantova. La riflessione sulle patologie della guerra e sulla dignità del morire si avvinghiano a quadri di folgorante forza compositiva e consapevolezza pittorica.
Rigore e naturalezza. Il cinema di Ermanno Olmi potrebbe limitarsi a queste due parole. Il mestiere delle armi ci restituisce un maestro in stato di grazia, ovvero nel momento espressivamente più alto forse dell’intera carriera. Novembre 1526: nella pianura padana, intorno a Ferrara, Giovanni dalle Bande Nere combatte contro i Lanzichenecchi di Carlo V, intenzionati a impiccare il Papa. Il castello è quello di Alfonso
d’Este. Il condottiero lotta, si ferisce, ama (un’adultera nobildonna di Mantova). È esperto nell’arma bianca. Viene introdotto all’uso delle
armi da fuoco. E muore giovane. Il rigore è quello che impedisce alla storia di diventare, in questo film come invece in tanti altri, un repertorio di avvenimenti fumettistici, e che richiede allo spettatore di accogliere la lunga riflessione sulla modernità, sulle radici della società “della
guerra”. La naturalezza, al contrario, è quella che permette a Olmi di ottenere un cinema potente e non artificioso, che non teme la dimensione spettacolare anche se calata all’interno di una versione mesta e plumbea del mondo. Il film è intessuto di momenti aspri e dolci. Ci ricorda che il cinema è fatto anche di silenzi e suoni naturali. Certo, Bresson e Bergman sono modelli, ma più di tutti Olmi è modello a se stesso. Il direttore della fotografia, Fabio Olmi, ottiene luci taglienti e aria densa, i volti degli attori – Hristo Jivkov e Sandra Ceccarelli – imprimono la memoria. “ Il mestiere delle armi celebra la transitorietà dell’esistere e, insieme, la fiducia nel cinema e nella sua capacità di rivelazione. Le cose sono là. Così gli uomini, le guerre, le armi, le armature. È il cinema che le (e li) rivela. È la luce del cinema che le (e li) fa rivivere. Rimettendo in moto il tempo che inevitabilmente si ferma” (Gianni Canova).